Il Lupo e il Vulcano

 

 

La terra tremò.

                  Le vibrazioni squarciavano le pareti rocciose della montagna e un lungo boato percorse le valli anguste. Il corpo sembrò irrigidirsi… e poi esplose con una potenza inaudita, lanciando magma rovente in ogni direzione.

                  Dovevo fuggire.

                  Aspettai che cessasse quella pioggia di lapilli, poi lasciai ansimante il mio precario rifugio. Le rocce incandescenti volavano in aria tutt’intorno a me. Ero come protetto da un invisibile alone.

                  Il calore era insopportabile, mi toglieva il respiro. Quell’aria infuocata mi entrava dalle narici e mi bruciava i polmoni. Non avrei resistito a lungo: cominciai a correre.

                  La foresta stava bruciando. Le fiamme avanzavano da ogni parte, tentando di bloccarmi la strada. Saltavo gli ostacoli con una prodezza di cui non credevo essere capace. Dovevo giungere, il più celermente possibile, lontano da quel monte infernale, capace di inghiottirmi.

                  Mi voltai, come per guardarlo in faccia: rimasi atterrito!

                  Un fiume di lava scorreva, inesorabile, alle mie spalle, divorando ogni cosa con straordinaria voracità. Era come la lunghissima lingua di un mostro sotterraneo.

                  Cercai disperatamente di allontanarmi dalla fonte di quel terrore primordiale che mi aveva come paralizzato. Continuai a correre tra quel groviglio di arbusti e rami roventi, senza badare alla direzione. Sapevo soltanto che dovevo discendere la montagna il più in fretta possibile.

La lava avanzava velocissima, a causa della forte pendenza.

                  Che speranza avevo di salvarmi? A quale distanza avrei potuto dire di essere finalmente al sicuro?

                  Non dovevo pensare, non c’era tempo. Cercai di scorgere qualche riparo che avrebbe potuto resistere all’avanzare del magma, ma non trovai nulla.

                  All’improvviso, vidi una luce. Sembrava provenire dalle profondità della Terra. Mi sentii accecare e caddi, privo di sensi…

 

 

                                                                                                           (2)

 

                  Ebbi un forte scossone e mi svegliai di soprassalto. La strada era disseminata di buche ed era impossibile evitarle tutte.

                  Mi affacciai dal finestrino della carrozza e sorrisi: avevo riconosciuto il paesaggio. Eravamo ormai quasi arrivati. Riconobbi uno dei prati in cui giocavo col pallone quand’ero piccolo, la casa di Alfiero e della sua famiglia e quella vigna che scendeva lungo il pendio, intervallata dai soliti vecchi ulivi. Era il mio paese, una volta… quindici anni prima…

                  La carrozza rallentò un poco, girò a sinistra, prendendo il viale che portava alla Corbara.

                  Mi lasciò davanti al portone d’ingresso. Scesi, guardandomi attorno con curioso timore: era tutto così familiare… e nello stesso tempo così ostile.

                  Poi, lentamente, alzai lo sguardo verso l’alto. Proprio di fronte a me, imponente come lo ricordavo, austero e nerissimo, si ergeva Montigno, una delle cime più alte dell’Appennino.

                  Le pendici del monte erano vicinissime alla mia tenuta, coprendo ad occidente gran parte dell’orizzonte e gettando sin dalle prime ore del pomeriggio un’ombra minacciosa sulle terre della Corbara, che occupavano quasi tutta la parte pianeggiante della vallata. Arroccato su di una collinetta c’era, invece, Camerte, i cui abitanti erano taciturni e misteriosi e non vedevano di buon occhio, pur senza ammetterlo, l’estesa proprietà dei Carracci.

                  Vidi un volto sorridente che si stava avvicinando. Era Paula, la mia dolce Paula dalle gote rosse e gonfie come mele.

                  “Bentornato, signorino!”

                  Ancora mi chiamava così. Notai che il suo volto, segnato dalle rughe, era solcato da una lacrima solitaria. Ricordo che mi teneva tra le braccia, quand’ero piccolo, ed io tentavo sempre di sfuggirle, dispettoso e prepotente.

                  Prese i miei bagagli e mi accompagnò in casa.

                  “Dov’è mio padre, Paula?”

                  “I suoi genitori sono in viaggio per Firenze”, disse ed io trasalii, “credevo lo sapesse.”

                  “Sì, me lo hanno scritto, solo che pensavo di fare in tempo e di arrivare prima della loro partenza.”

                  “Sono partiti ieri l’altro, signor Edmondo!”

                  Salimmo le scale. Non ricordavo quasi nulla della casa, tranne una cosa: quello stupendo dipinto nell’atrio, raffigurante la vallata e Montigno.

                  Quel quadro mi aveva sempre affascinato, per i suoi colori freddi ed austeri, ma che emanavano un’intensa forza vitale. E la sagoma del monte, conica, pervasa da un alone fiammeggiante da cui si sprigionavano saette.

                  Mi sovvennero in mente le parole di mio nonno, che mi spiegava l’origine del nome Montigno.

                  “E’ latino…”, diceva mio nonno.

                  “Mons Igni, il monte del fuoco…”, quelle parole mi suonavano tetre e spaventose.

                  “Montigno… tornerà a vomitare fiamme!”, ed io fuggivo in preda al terrore.

                  Tornai in me, seguendo Paula che mi stava accompagnando nella stanza da letto. Senza chiedermi neanche il permesso si mise a disfarmi i bagagli, come faceva quand’ero piccolo.

                  “Per fortuna che ora è arrivato lei, signore.”

                  “E perché mai, Paula?”, chiesi incuriosito.

                  “Come, non ha saputo niente della povera Carola?”

                  Ero sorpreso. Mio padre non l’aveva neanche accennato nella sua ultima lettera.

                  Carola era una simpaticissima donna del paese, una contadina chiacchierona ed estroversa, amica di mia madre. La particolarità, per cui era assai nota, era la sua formidabile parlantina: riusciva a proferire un centinaio di parole in appena quindici secondi!

                  “Cosa è successo alla povera Carola?”, chiesi.

                  “Signore, mi viene l’angoscia al solo pensiero! E’ stata divorata da qualche bestia immonda.”

                  Rimasi pietrificato.

                  “Che genere di bestia?”

                  “Nessuno lo sa…”, rispose Paula, “però erano diversi giorni che parlava del Demonio… del Maligno che si è impossessato della vallata, come dicono le vecchie leggende…”

                  Guardai Paula negli occhi.

                  “Non devi credere a tutto quello che raccontano…”

                  “Ma, signore, le leggende…”

                  “Probabilmente si è trattato di una disgrazia. Questa montagna è piena di cinghiali. Sono tornato per questo: per riposarmi e per cacciare cinghiali. Non voglio farmi intimorire da vecchie leggende e strane superstizioni.

                  Comunque, bisogna fare attenzione: i cinghiali sono pericolosi e grossi… molto grossi. Possono staccarti una gamba a morsi…”

                  “Oh, signore!”. Paula era fuggita inorridita.

                  Terminai di sistemare gli indumenti che erano rimasti nella valigia, cercando di non pensare a quegli ultimi avvenimenti.

                  Mi recai nello studio di mio padre. Se ricordavo bene, doveva trovarsi al piano inferiore, accanto alla biblioteca.

Aprii la porta ed entrai nella stanza. Riaffiorarono alla mia mente mille ricordi, mille sensazioni che mi riportavano indietro nel tempo, prima di emigrare in America.

                  Sopra la scrivania c’era una lettera con il mio nome a caratteri cubitali: mio padre mi aveva lasciato un messaggio.

                  Staccai lentamente i bordi incollati e lessi:

                  “Carissimo figlio,

Veramente mi piange il cuore sapendo del tuo arrivo e che non saremo lì a riceverti nella nostra casa. Avrei voluto rimanere, Cielo… se avrei voluto rimanere, ma le circostanze m’impediscono di farlo e ho preferito portare in salvo tua madre…”

                  Non riuscivo a capire di cosa stesse parlando.

                  “… ti avevo pregato con tutto il cuore di rimandare la tua visita, vedendoci direttamente a Firenze dalla zia Antonia, che trepida nell’attesa di poterti riabbracciare (anch’io e tua madre lo desideriamo tanto). Ma sappiamo che sei un tipo testardo, ed è inutile che io mi chieda da chi hai preso. Del resto avevi le tue buone ragioni: sono quindici anni che vivi lontano dall’Italia e dai tuoi luoghi natali. Non si può chiedere tanto ad un animo patriota e sensibile come il tuo…”

                  Mi fermai un attimo per riflettere. Forse aveva ragione.

Erano diversi anni che avrei voluto affrontare il viaggio lunghissimo e le spese non irrisorie. E’ per questo che non avevo preso in considerazione le raccomandazioni di mio padre. Continuai a leggere:

                  “… ti ho taciuto alcune cose importanti. Da alcuni mesi a questa parte stanno accadendo alcuni fatti che trascendono ogni spiegazione razionale. La morte della povera signora Carola mi ha convinto, finalmente, a prendere questa decisione: lasciare la Corbara per sempre!”

                  Compresi finalmente che erano fuggiti. Ma da che cosa? Quali altri fatti erano accaduti?

                  “… tua madre è rimasta letteralmente sconvolta. E non solo perché Carola era una sua amica, quanto perché… pochi giorni prima stava per subire la stessa sorte: dobbiamo ringraziare il nostro caro Alfiero, se ora è ancora in vita.

                  Ho deciso che non avremmo corso ulteriori rischi. Quando avrai assaporato nuovamente il calore del tuo borgo natio, raggiungici a Firenze, dalla zia Antonia. Ti aspettiamo a braccia aperte!”

                  La lettera terminava con l’impossibile firma di mio padre, che decine di volte avevo tentato di imitare senza mai riuscirci.

                  Quelle parole mi avevano lasciato perplesso. Da un lato ero contento, perché li sapevo al sicuro ed in buona salute. Dall’altro non mi rendevo conto se le loro paure fossero giustificate o meno. In ogni caso, pensai che dovevo chiarire questa storia una volta per tutte e decisi di parlare ad Alfiero.

                  Uscii di casa ben coperto, a causa della bassa temperatura. Non avevo dimenticato il clima rigido di quei luoghi. Persino d’estate era quasi d’obbligo un indumento invernale, in special modo dopo il tramonto del sole tra le oscure segrete di Montigno.

                  Lasciai il viale della Corbara, prendendo la salita verso il paese. La casa di Alfiero era la prima che avrei incontrato: lo ricordavo bene.

                  Da bambini giocavamo spesso insieme, nonostante avesse qualche anno più di me. Andavamo d’accordo e neanche sapevo che cosa fosse la differenza sociale. Lo capii più tardi, quando entrò alle dipendenze di mio padre con mansioni tuttofare.

                  Lo vidi da lontano, di fronte al casolare dove viveva la sua famiglia, insieme ad altre tre.

                  Era invecchiato, come me del resto. Riconobbi ugualmente quel paio di baffoni spioventi e la sua sagoma, per così dire, ingombrante. C’era, però, qualcosa di strano…

                  Notai un certo movimento, intorno al casolare. Ricordavo gli occhi torvi e minacciosi di certi paesani, ma questa volta era diverso. Riconobbi la paura nelle loro espressioni. Era successo qualcosa!

                  Vidi la signora Maria entrare in casa trasportando un involto, seguita da altre due o tre donne.

                  Mi avvicinai lentamente. Alfiero mi aveva riconosciuto, ma non si mosse. Davanti a lui, attorniato da altra gente, giaceva un cadavere.

                  A quella vista mi sentii svenire. Avevo riconosciuto gli occhi della vecchia Francesca: azzurri, intensi e profondi a dispetto degli stomachevoli resti del suo corpo.

                  Gli arti sembravano recisi da unghie micidiali e il resto era stato fatto a brandelli come da fauci fameliche. Ero rimasto pietrificato.

                  Mi voltai, rifiutando di assistere ancora a quell’orribile scena. La vecchia fu coperta con un telo e portata via.

 

 

                                                                                                           (3)

 

                  Mi chiesero di rimanere a cena con loro, quella sera. Le circostanze imponevano una certa severità nei discorsi e nei convenevoli, ma riuscirono ugualmente a dimostrarmi la loro gioia nel vedermi di nuovo a casa.

                  Alfiero mi parlò di ciò che era accaduto a mia madre.

                  “Mi trovavo nel bosco”, disse, “poco distante dalle Tre Querce, ero andato a tagliare un po’ di legna per il fuoco. La signora Agata era passata qualche tempo prima, l’avevo incontrata lungo il sentiero durante la sua solita passeggiata in mezzo alla natura.

                  Poi, si era fatto tardi e, non avendola vista ritornare, decisi di dare un’occhiata in giro.

                  All’improvviso sentii alcune urla e come uno strano ululato. Vidi la signora che stava fuggendo da qualcosa e le andai incontro, dicendole di non temere. Sul braccio aveva profondi segni di artigli.

                  La accompagnai subito a casa ed organizzammo, col signor Carracci, una battuta per stanare la belva, ma non ne trovammo alcuna traccia.”

                  “Un lupo?”

                  “Così crediamo, anche se sono anni che non se ne vede uno.”

                  “Non è più probabile che si tratti di un cinghiale? Ce ne sono molti e tu lo sai.”, dissi.

                  “No, ti giuro che quello era un ululato, semprechè tu non voglia credere a tua madre…”

                  “Lo ha visto?”, chiesi.

                  “Di sfuggita… l’ha colta di sorpresa, ma ricorda un manto di pelo lungo e scuro, oltre ad una agilità incredibile. Non poteva essere un cinghiale. Inoltre non c’erano orme di cinghiali…”

                  “Hai trovato quelle di un…”

                  “No non sono nemmeno quelle di un lupo, sono troppo grandi. Dio solo sa di che cosa di trattava!”

                  “E’ il male!”, risuonò nell’aria.

                  Era entrata la vecchia Venanzina. Ero stupito di vederla ancora in piedi! Aveva sicuramente superato i cento anni.

                  “E’ il male nascosto sul monte!”, disse ancora la vecchia, ignorata dai più. Era una vita che ripeteva quelle sinistre parole.

                  Alfiero ed io tornammo al nostro discorso.

                  “Che cosa mi dici di Carola e di Francesca, proprio oggi?”

                  “C’è poco da dire…”, sospirò Alfiero, “sono state trovate entrambe nella zona degli orti, …in quelle condizioni. E’ raro che un cinghiale si avvicini così tanto al paese e attacchi l’uomo per giunta!”

                  “E’ il male!”

                  La vecchia Venanzina aveva captato la tensione che regnava quella sera. Mi avvicinai e mi lasciai toccare da quelle mani rugose.

                  “Fuggi via, figlio mio.”, disse.

                  Le sue dita tremavano e così le sue labbra.

                  “Il male è nascosto sul monte… aspetta di colpire… fuggi via, figlio mio…” Prese il rosario tra le mani e cominciò la lunga litania quasi incomprensibile.

                  Lasciai la vecchia avvicinandomi al caminetto. Chissà se mi aveva riconosciuto? Forse le sue parole non erano solo polvere al vento, forse i vecchi, con la loro saggezza, erano in grado di avvertire il pericolo molto prima di noi.

                  Alfiero mi raggiunse accanto al fuoco.

                  “Che cosa intendete fare?”, gli chiesi.

                  “Domattina andremo in perlustrazione. Cercheremo ulteriori tracce nella zona degli orti, ma vedrai che sarà inutile”, sospirò, “dopo poche centinaia di metri svanirono nel nulla, come è successo le altre volte. Vuoi unirti a noi?”

                  “No, grazie. Preferisco di no. Sono troppo stanco. Farò una passeggiata sul monte cercando di cacciare qualche cinghiale. Mi spingerò al massimo su, fino ai trocchi.”

                  “Sai”, disse Alfiero, “dicono che da qualche tempo un cinghiale scenda dal monte tutte le mattine, all’alba, recandosi a bere da qualche parte. Molti montanari l’hanno visto scendere, perdendone poi le tracce.”

                  “Può darsi ch’io sia fortunato!”

                  “Dovrai essere mattiniero.”

                  “Voi dove sarete diretti?”

                  “Batteremo il monte nella zona esposta a nord, è probabile che il lupo abbia la sua tana da quelle parti.”

                  “Non lascerete il paese incustodito?”

                  “Certo che no. Ci saranno Augusto e i suoi fratelli, oltre ad un gruppo di amici sempre all’erta.”

                  “Dovete trovarlo o il paese vivrà in un incubo.”

                  Moriremo tutti!” La vecchia Venanzina si era messa a gridare. “E’ scritto che moriremo tutti… è il Lupo dei Monti… ci ucciderà tutti!”

                  La signora Maria tentò di calmarla. Le fece assaggiare uno dei suoi infusi aromatici e poi la accompagnò nella sua camera.

                  Anch’io mi congedai, salutando tutti i presenti. Uscii dall’abitazione dirigendomi verso casa.

                  Era freddo e buio.

                  Poi, quando la vista si fu assuefatta alla scarsa illuminazione, notai la mia ombra che mi seguiva lungo il sentiero.

                  Alzai gli occhi verso l’alto, come di riflesso, e la vidi: era bianca, splendente, più grande di quanto l’avessi mai vista finora.

                  Sovrastava il Montigno, rendendo netta e ben visibile la sua sagoma. Credetti di udire un ululato…

                  Forse era solo la suggestione per quanto era accaduto.

                  Però, era luna piena…

 

 

                                                                                                           (4)

 

                  Regnava un silenzio intriso di pace.

                  Il sole tentava di districarsi tra i rami copiosi della selva montana. Delicati vapori si dissolvevano nell’aria, bagnando ogni filo d’erba.

                  Camminavo lentamente, col fucile in spalla, calpestando quei ciuffi selvatici con una certa cautela, come se avessi paura di schiacciarli. Mentre percorrevo quegli ombrosi meandri della montagna, seguendo scrupolosamente la via indicata dal vecchio sentiero, riaffioravano nella mia mente tutti i ricordi e le sensazioni che avevo dimenticato.

                  Io e mio padre venivamo spesso a cacciare sul monte. Percorrevamo chilometri e chilometri, inseguendo la selvaggina fin sugli anfratti rocciosi. Chiacchieravamo al tepore di un falò acceso con mezzi di fortuna: mi aveva insegnato tutto quello che c’era da sapere per sopravvivere nella macchia.

                  La guerra era stata una dura maestra di vita e il monte aveva accolto tra le sue spire oscure ogni fuggiasco in cerca di protezione.

                  Guardai la cima del Montigno.

                  Era avvolta da un grigio cappuccio nebbioso e ombre minacciose percorrevano i suoi fianchi assolati. Ma sotto la densa cortina di vegetazione la vita pullulava in ogni sua forma.

                  Mi arrampicai su di un scoglio sporgente. Potevo osservare un paesaggio fantastico, reso rubicondo da quel sole in pieno vigore. Cercai con lo sguardo la mia casa, piccola, solitaria nel mezzo della valle.

                  Il sentiero proseguiva costeggiando la montagna, addentrandosi sempre di più nel cuore selvaggio della foresta.

                  Mi fermai perché la strada era interrotta. Una frana l’aveva completamente occultata per un tratto di qualche decina di metri.

                  Si era formata una strettoia larga qualche palmo, per cui bisognava fare attenzione a dove mettere i piedi: a valle c’era uno strapiombo da capogiro.

                  Passato il pericolo, finalmente fu visibile ai miei occhi l’Eremo di Val Povera, incassato di ridosso al monte. Sin dal secolo XII gli eremiti avevano scelto questo luogo come oasi di pace e di meditazione, data la sua bellezza e l’impressione di trovarsi fuori dal tempo.

                  Cercai con gli occhi la figura di frate Silvano, ma non c’era traccia di anima viva. Eppure sapevo che il frate viveva ancora lì, con le sue capre e la sua grande serenità.

                  Avvicinandomi, ammirai con dovizia di particolari la stupenda costruzione, le torrette e la Cappella della Madonna del Lupo, magnificamente conservata grazie alle cure del frate e al suo ingegno a dir poco notevole.

                  Era giunto all’Eremo molto tempo prima, l’aveva rimesso a nuovo, reso abitabile e autosufficiente, solo grazie alle sue forze e senza accettare l’aiuto di chicchessia. Non disdegnava, invece, la compagnia di chiunque passasse da quelle parti, intrattenendo l’ospite con la storia della rinascita di Val Povera.

                  Il tratto più scosceso del sentiero era stato trasformato da frate Silvano in una serie di tornanti e lungo il percorso aveva installato diverse tavole di legno, recanti incise frasi tratte dalla Bibbia. Era il segnale che stavo per entrare nel regno della pace.

                  Finalmente riconobbi la sua inconfondibile chierica. Stava chinato, dentro il suo orto, intento a raccogliere un po’ di verdura.

                  Alzò il capo, non appena mi sentì arrivare.

                  “Mi riconoscete?”, dissi in tono scherzoso.

                  Frate Silvano mi regalò uno dei suoi sorrisi ariosi.

                  “Edmondo! Come stai! Quanto tempo è passato!”. Mi accolse con un caloroso abbraccio. “E’ molto che sei ritornato?”

                  “Ieri pomeriggio”, risposi, “come vedi, sono venuto subito a salutarti!”

                  Mi fece accomodare in casa. Dopo tanti anni, rimettevo piede nell’Eremo. Provavo una strana sensazione, mi sembrava di rivivere il passato.

                  “Cosa posso offrirti?”, mi chiese.

                  “Non ti disturbare…”

                  “Stai scherzando? Sono mesi che non vedo anima viva! Ogni tanto incontro Elvio di Merano che mi porta le provviste e qualche pettegolezzo di paese. A parte ciò, la mia lingua lamenta una prolungata inefficienza…”

                  Tirò fuori, da un grosso credenzone, un bottiglione di vino ed una ciambella profumata. Prese anche due di quei bicchieri giganti che avevo visto soltanto da lui.

                  Era difficile sfuggire alla sua insistente ospitalità ed era praticamente impossibile andarsene a pancia vuota. Del resto, il suo vino ed i suoi dolci erano tra i migliori che avessi mai assaggiato.

                  “Parlami di questi ultimi atroci avvenimenti. Ho saputo che è morta la povera signora Carola…”

                  “Già…”, annuii amaramente, “e ieri è stata la volta di Francesca, te la ricordi?”

                  “Stai scherzando?”, sgranò gli occhi.

                  “Dicono che un lupo si aggiri da queste parti.”

                  “Sono anni che non si vedono lupi, a meno che…”, il frate si fermò sovrappensiero. “Ricordo… la vecchia leggenda!”

                  “La conosci?”, chiesi incuriosito.

                  Mi guardò con aria dubbiosa. C’era qualcosa che lo angosciava, ma non trovava il coraggio di parlarmene.

                  “Forse… mi crederai pazzo.”, disse, dopodiché si alzò in piedi, avvicinandosi lentamente alla stretta finestra. Si intravedeva la cima del Montigno incoronata dalle nubi.

                  Prese in mano il crocifisso che portava al collo e se lo strinse forte sul petto.

                  “E’ il male”, cominciò.

                  Erano le stesse parole della vecchia Venanzina.

                  “E’ il male che sta tornando sulla vallata… Non c’è modo di fermarlo!”

                  Ascoltavo, assorto, quelle parole, cercando di comprenderne il significato. Il frate continuò:

                  “La leggenda narra di un lupo, del Vecchio Lupo dei Monti, …uno dei più crudeli, di quelli assetati di sangue, che non voleva morire… Il Male, allora, lo trasformò… nessuno sa in che cosa. Lo trasformò e lo portò con sé. Ma un giorno sarebbe tornato lupo… un lupo invisibile che non può essere ucciso…”

                  “Un lupo… immortale?”, chiesi.

                  “No, non è immortale. Puoi sparargli se vuoi… ma non devi farlo!”

                  Timidamente gliene chiesi la ragione.

                  “Devi credermi. Non puoi farlo!”, esclamò, “O la valle sarà completamente distrutta!”

                  “Come sarà possibile una cosa del genere?”

                  “Dimentichi… lui!”, indicò fuori della finestra.

                  “Il Montigno?”

                  Mi chiesi che rapporto ci poteva essere tra il lupo e il nostro monte.

                  “Sai benissimo che è un vulcano inattivo. Ma non lo sarà per sempre… Tornerà a lanciare fiamme … solo se noi uccideremo il lupo!”

                  Quella rivelazione era sconvolgente. Ciò significava che gli antichi abitanti della valle avevano fatto un patto con il Demonio: questi avrebbe reso il Montigno inattivo, ma voleva in cambio riassaporare il gusto bestiale della malvagità.

                  Voleva che il lupo gli procurasse carne umana.

                  Quale dei due mali era peggiore? Il lupo che tornava frequente a pascersi di qualche vittima, oppure il Vulcano, che rendeva incerto ogni prossimo sorgere del sole?

                  Tutta questa storia era inquietante. Restavano, inoltre, numerosi interrogativi. Perché dopo tanto tempo il lupo era tornato ad uccidere? Dove si nascondeva? Come fermarlo senza scatenare l’Inferno?

                  Frate Silvano si fece il segno della croce, mentre dall’esterno si riflettevano lampi di luce a ciel sereno.

                  “Ora lo sai.”, disse.

                  Sapevo qual era il segreto che Montigno nascondeva, ma quel senso di impotenza di fronte agli avvenimenti mi faceva desiderare l’esserne rimasto all’oscuro.

                  Uscii dall’Eremo, promettendo a frate Silvano che sarei passato più tardi, prima di ritornare a casa. Volevo dare un’occhiata in giro. Con un po’ di fortuna, avrei potuto catturare un bel leprotto. Mi avviai verso la macchia. C’era qualcosa di strano che non riuscivo a comprendere. Mi sembrava come se la montagna mi fosse diventata improvvisamente ostile. Si era alzato un forte vento che ghermiva le foglie degli alberi, producendo un suono simile ad un sibilo.

                  Poi, tutto ad un tratto, il vento cessò, creando una calma innaturale. Quella sensazione di ostilità non mi aveva affatto abbandonato: il Montigno sembrava adirato. Minacciosamente mi spiava dall’alto, attendendo una mia prima mossa.

                  Camminavo adagio. Sentivo i minuscoli ramoscelli che si spezzavano al mio passaggio. Quella quiete mi atterriva in maniera impressionante. Serrai a me il fucile, come se avessi paura di perderlo e avanzai pian piano.

                  Udii un fruscio alle mie spalle.

                  Mi voltai, cercando di calmare i nervi. Non c’era nulla!

Eppure avevo sentito qualcosa.

                  Poi lo vidi.

                  Era buio in mezzo a quel cespugli spinosi. Così buio che non si riusciva a distinguere le foglie. Tuttavia, due occhi minacciosi mi fissavano intensamente, come due perle sul raso nero.

                  Barcollai leggermente, inciampando a cadendo per terra. Il fucile cadde pesantemente su di un sasso, lasciando partire un colpo.

                  L’eco della esplosione risuonò in tutta la valle. Mi rialzai, riprendendo l’equilibrio e mi guardai attorno. Del lupo non c’era più traccia.

                  Ero fermamente convinto che la sua tana dovesse trovarsi in quella zona. Decisi di non arrischiarmi ad ispezionarla da solo. Dovevo per prima cosa avvertire frate Silvano del pericolo e poi tornare in paese a cercare gli altri.

                  Mi affrettai precipitandomi verso l’Eremo. Percorsi il sentiero come un fulmine, attento a non scivolare. Giunto nei pressi, chiamai il suo nome ad alta voce: non mi giunse alcuna risposta.

                  Bussai più volte alla porta, senza esito. Pensai che dovesse trovarsi nella Cappella.

                  Entrai. Intinsi le mie dita nell’acqua consacrata, ma ritirai subito la mano. C’era un liquido denso e viscoso, al posto dell’acqua… Portai istintivamente le mani alle narici, annusandole e guardando meglio.

                  “Ma… è sangue!”, esclamai.

                  Mi guardai attorno. L’oscurità mi aveva celato macchie di sangue che ricoprivano l’intero pavimento della Cappella.

C’erano impronte su tutte le pareti.

                  Al centro, proprio sotto la statua della Madonna del Lupo, vidi una pozza di sangue e… il cadavere di frate Silvano, orrendamente mutilato.

                  Uscii all’aperto con il voltastomaco. L’avevo lasciato poco prima… vivo! Non sapevo se mettermi a piangere dalla disperazione oppure se ritornare a cercare quella sporca belva.

                  L’immagine del suo corpo dilaniato, con i segni ancora evidenti delle zanne, mi tormentava e non riuscivo a scacciarla dalla mente. Soffrivo, perché tutto il mio mondo, tutte le persone a me più care stavano scomparendo, cancellate dal Male.

                  Che cosa avrei potuto fare? Stavo come impazzendo, chiuso nella gabbia dell’irrazionale.

                  Tornai in me, dopo quegli attimi di sconforto. Gli eventi si susseguivano così rapidamente che meritavano un’analisi ed un controllo molto più fermi e precisi.

                  Notai che si stava facendo buio. Non era il caso di rimettersi in cammino, avrei corso dei rischi inutili. Decisi di passare la notte nell’Eremo; lì, almeno, sarei stato al sicuro.

                  Entrai nell’abitazione, assicurandomi che tutti gli ingressi fossero accuratamente chiusi. Poi, mi fermai raggelato.

                  Non l’avevo mai udito prima! O… forse sì… Un lungo ululato aveva scosso l’intera valle, profondo e cavernoso.

                  Mi affacciai alla finestra verso levante e vidi ancora una volta il candore minaccioso della luna piena, quella forma perfetta che incombeva su di me, illuminando i ripidi e scoscesi pendii, altrimenti confusi nel buio della notte.

                  Un secondo ululato ruppe di nuovo il silenzio.

                  Come potevo dormire tranquillo, con quell’orrore che circolava senza tregua?

                  Presi alcuni rami dalla legnaia ed accesi il caminetto. Il tepore di quel fuoco riuscì, a poco a poco, a calmarmi. Le forze mi abbandonarono e mi lasciai trasportare da un sonno profondo e ristoratore…

 

 

 

 

                                                                                                           (5)

 

                  Era notte fonda.

                  La luce argentea della luna si miscelava e confondeva con quella sanguigna delle rocce incandescenti.

                  Non so come, ma ero sopravvissuto al fiume di lava che minacciava di raggiungermi. Forse, all’ultimo momento, aveva cambiato direzione.

La foresta era stata quasi completamente divorata dalle fiamme. Decisi di allontanarmi al più presto, forze permettendo. Scesi rapidamente il pendio scosceso che mi separava dal fondo della valle e mi incamminai, guardandomi attorno e approfittando di quel momento di relativa tranquillità.

                  Avevo raggiunto il Passo della Croce. Le fiamme non erano riuscite ad intaccare la pietra che gelosamente aveva protetto la piccola immagine della Madonna del Lupo.

                  Era la stessa che si trovava nella Cappella dell’Eremo di Val Povera, scolpita nel legno in dimensioni quasi naturali. Ed ogni anno, la gente della zona portava la statua in processione su, verso la montagna, immolando il corpo innocente di un giovane agnello.

                  Erano soltanto ricordi.

                  Presto o tardi la furia del Montigno avrebbe distrutto anche quell’ultima effigie, come aveva divorato l’Eremo intero…

                  Il pensiero che più mi angosciava era quello di essere il solo e unico responsabile, anche se tutto era accaduto senza che me ne rendessi conto.

                  Procedevo quasi per inerzia. Le ceneri fumanti ancora mi circondavano, ma ormai mi ero abituato al loro sapore acre e nauseabondo.

                  Mi fermai per riprendere fiato. Mi trovavo in una radura, ancora molto lontano da casa. Notai con piacere qualche albero superstite, così come me.

                  Vidi anche una grossa ombra. Non riuscivo a capire da che cosa fosse provocata. Era l’ombra… di niente!

                  La luna, che aveva regnato sovrana per l’intera notte, sembrava averla creata apposta per me.

                  L’ombra rimaneva immobile. Io cominciai a girargli intorno, rimanendo a debita distanza. Sentivo la presenza di qualcosa, eppure, senza riuscire a spiegarmelo, esitavo a fuggire.

                  A poco a poco l’essere cominciò a prendere forma. Era gigantesco: il più grosso lupo che avessi mai visto! Aveva artigli micidiali che luccicavano come lame e fauci mostruose che metteva in mostra digrignando i denti, mentre la bava schiumosa gli colava ai lati.

                  Il terrore che provavo in quei momenti era indescrivibile, tale da bloccarmi completamente, impedendomi qualsiasi movimento.

                  Il lupo esitò, ed io approfittai di quell’attimo per ritrovare tutte le mie forze, organizzando una fuga disperata.

                  Quella belva era molto più veloce della lava e notevolmente astuta. Senza un fucile ero praticamente senza via di scampo.

                  Tentai di nascondermi, ma quella luna maledetta rendeva vano ogni mio tentativo. Mi era alle costole. Più correvo e più sentivo la sua presenza, il suo respiro cavernoso.

                  Improvvisamente si fermò. Un ululato minaccioso risuonò per miglia e miglia, ma non mi lasciai suggestionare e tentai l’ultima via di salvezza.

                  Di fronte a me c’era il baratro. Duecento metri di altezza mi separavano dal fondo che scorgevo a malapena.

                  Era una pazzia. La probabilità di salvarmi era una su un milione, contro l’assoluta certezza di essere sbranato da quel mostro.

                  Sperai di rimanere impigliato su qualche ramo e mi gettai senza esitazione, non appena vidi due grosse fauci avvicinarsi famelicamente…

 

 

                                                                                                           (6)

 

                  Il sole filtrava attraverso le piccole finestre dell’Eremo, illuminandomi il viso.

                  Mi svegliai, chiedendomi che ora fosse. Gli avvenimenti del giorno precedente mi sembravano lontani, come se fossero accaduti ad un’altra persona. Poi, il pensiero del corpo di frate Silvano, selvaggiamente sbranato nella Cappella, mi riportò alla dura realtà.

                  Presi il fucile e, con le dovute cautele, mi avventurai all’aperto, con l’intenzione di raggiungere il paese quanto prima, per informare dell’accaduto.

                  Le piccole radure, che sovente incrociavano il mio sentiero, sopportavano l’esile peso di un velo di rugiada, sotto la quale trasparivano ciuffi rigogliosi di gramigna.

                  Era così piacevole passeggiare per i viottoli della montagna alle prime ore del mattino, da farmi persino dimenticare, per un attimo, gli orrori di cui ero stato partecipe.

                  Notai che qualcosa si muoveva a diversi metri di distanza. Mi appostai dietro una grossa quercia, cercando di evitare ogni rumore. Credevo si trattasse del lupo e un brivido mi percorse tutta la schiena.

                  Mi affacciai timidamente dall’albero, cercando di scorgere l’animale. Con grossa sorpresa, vidi che si trattava di un cinghiale: stava scendendo dalla montagna a ritmo sostenuto.

                  Era sicuramente quello di cui mi parlava Alfiero, ma si dirigeva in tutt’altra direzione.

                  Forse per la curiosità, forse perché avevo voglia una volta per tutte di vederci chiaro, decisi di seguirlo. In fondo, si trattava soltanto di lasciare il sentiero e di proseguire in mezzo al bosco che conoscevo abbastanza bene.

                  Il cinghiale, fortunatamente, non si era accordo della mia presenza e trotterellava deciso verso valle. Avevo capito che stava dirigendosi verso i boschi di Don Petriolo.

                  Lo seguivo a notevole distanza, approfittando della mia buona vista e del fatto che ne avevo intuito la direzione.

                  Ora, però, entrava in terre che non erano le mie e dovetti avvicinarmi per non rischiare di perderlo.

                  L’animale giunse in un grosso prato, rallentando l’andatura. Quel posto era completamente circondato dagli alberi e non l’avevo mai visto prima. Non ne avevo mai neanche sospettato l’esistenza.

                  Notai alcuni vapori che provenivano da un piccolo avvallamento. Tentai di avvicinarmi, ma non potevo andare oltre o sarei stato allo scoperto. Decisi di cambiare luogo di osservazione, in modo da avere bene in vista il cinghiale.

                  Ora lo vedevo perfettamente: lo tenevo sotto tiro. Stavo per sparare, ma accadde qualcosa che mi bloccò.

                  Stava bevendo l’acqua di un piccolo stagno e quello era il momento più propizio per premere il grilletto. Improvvisamente, sotto i miei occhi, vidi che stava avvenendo la trasformazione.

                  Fluidamente tutto sembrò allungarsi. Il muso si stava affusolando e le orecchie crescevano a dismisura. Il corpo assunse una forma più snella aumentando le dimensioni, mentre il pelo veniva arruffandosi e cambiando colore.

                  Il lupo lanciò un ululato straziante.

                  Senza pensarci due volte, premetti il grilletto e, per qualche attimo, chiusi gli occhi, cosciente di cosa avevo fato.

                  Vidi il corpo del lupo che giaceva, senza vita, vicino alla pozza d’acqua. Mi avvicinai con prudenza: lo avevo centrato in pieno! Avevo ucciso il terrore della valle: quella belva che si era saziata del sangue dei miei compaesani, celandosi sotto le sembianze di un cinghiale.

                  Presi un coltellaccio dalla cintura e lo decapitai non senza difficoltà. Non potevo trasportarlo tutto da solo, ma volevo ugualmente una prova da portare in paese.

 

 

                                                                                                           (7)

                                                                                        

                  C’era parecchia gente radunata in mezzo alla piazza. Mi guardavano con aria incredula, arretrando quando gettai a terra il macabro trofeo.

                  Alfiero mi corse incontro.

                  “Edmondo, eravamo preoccupati!”

                  “Già, anch’io.”, risposi sorridendo.

                  “Saremmo venuti a cercarti. Eravamo in partenza. Ma tu hai fatto tutto da solo… dove l’hai trovato?”

                  “Nei boschi di Don Petriolo, non c’ero mai stato prima. Ha ucciso anche….”

                  Mi chiesi come mai, invece di ascoltare le mie parole, la gente fissava la montagna. Mi voltai anch’io a guardare e rimasi attonito. Non ero neanche riuscito a finire la frase, non dissi loro neppure che frate Silvano era morto: dalla cima del Montigno usciva una lunga, minacciosa fumata nera.

                  Nessuno comprendeva realmente la portata degli avvenimenti. Rimasero immobili, osservando passivamente la scena.

                  Solo la vecchia Venanzina si avvicinò a me, bisbigliando:

                  “Che diavolo hai combinato?”

                  Non volevo, non potevo credere che il mio paese fosse condannato, ma la leggenda parlava chiaro: io avevo ucciso il lupo e nessuna forza del male avrebbe più trattenuto il Montigno dal vomitare fiamme!

                  Ero sconvolto, sapevo che non c’era più nulla da fare. In quel momento ripensai al mio sogno. Gli eventi combaciavano perfettamente: avevo visto il mio futuro!

                  Mi appoggiai per non cadere. Pensai che fosse stata la mia debolezza a farmi perdere l’equilibrio, invece il terreno vibrava, come animato da una forza invisibile.

                  Alcune abitazioni cominciarono a crollare. La gente fuggiva, urlando come fosse impazzita: c’era il caos più completo. Grossi solchi si aprivano, improvvisamente, inghiottendo ogni cosa. Quei movimenti sussultori lanciavano in aria attrezzi come fossero fuscelli e masse rocciose rompevano le pavimentazioni stradali, sbucando dal nulla.

                  Assistevo a quella scena senza battere ciglio, come fossi un automa. Intanto pensavo… pensavo che ci doveva essere una soluzione, che ero ancora in tempo per fermare quella potenza distruttrice.

                  Cominciai a correre verso la montagna. La gente forse pensava che stessi fuggendo, o era troppo impaurita per notarmi. Comunque non fuggivo.

                  Ero diretto ai boschi di Don Petriolo, dove avevo lasciato il corpo esanime del Lupo dei Monti.

                  Lo trovai ancora lì. Le formiche già popolavano i brandelli di carne, consumandola a poco a poco.

                  Non mi curai di lui. Guardai lo stagno: un piccolo rivo lo riforniva costantemente di acqua.

                  Avevo capito che quella fonte godeva di particolari proprietà. Ogni giorno il cinghiale scendeva dal monte per acquistare nuove energie, per trovare tutta la forza di cui aveva bisogno… per essere lupo.

                  Mi accasciai sul nudo terreno, bagnando le mie labbra.

                  Sorseggiai lentamente e sentii un forte calore invadere tutto il mio corpo: in quel preciso istante la terra cessò di tremare.

                  Ero felice, ma a quale prezzo avevo ottenuto la salvezza del mio paese natale? Sentivo che le mie membra si stavano trasformando, provavo un’irresistibile voglia di carne umana. Grossi e rozzi peli si aggrovigliavano sulla mia pelle, mentre correvo verso la montagna assaporando tutte le sensazioni bestiali che erano in me: gli odori della foresta, i muschi, il sangue di cui sentivo disperatamente il bisogno.

                  Ma c’era ancora qualcosa di umano, dentro di me. Fu proprio la mia parte umana a spingermi verso il precipizio. All’improvviso ebbi una visione. Vidi qualcuno gettarsi nel vuoto.

                  Avevo riconosciuto il mio volto. L’uomo mi indicava l’unica via di salvezza: se fossi stato io ad uccidermi, il Montigno si sarebbe placato per l’eternità ed il patto col Male sarebbe stato ugualmente rispettato.

                  Vidi la voragine.

                  La belva che era in me provò a fuggire, ma con un balzo riuscii a catapultarmi nel vuoto…

 

                  Due giorni dopo la tragedia, ai piedi di un profondo precipizio, fu trovato il corpo di un secondo lupo; qualcuno disse che il maligno era finalmente morto e che il paese era oramai in salvo, ma i dubbi su quella seconda presenza rimangono tuttoggi. Il cadavere di Edmondo non fu mai ritrovato. (Tratto da “Storia della Famiglia Carracci”)